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Heidegger e il compito del pensiero. Il dono dell’essere

Heidegger e il compito del pensiero. Il dono dell’essere

Nov 09

 
Oggi pubblichiamo il primo articolo di Danilo Serra, laureato e specializzato in filosofia all’Università di Palermo. Danilo inizia la sua collaborazione con Filosofia Blog esplicitando alcuni aspetti della relazione tra pensiero ed essere nella filosofia di Heidegger. Ringraziandolo per il contributo, gli diamo il benvenuto tra i collaboratori del blog.
 

Nelle prime pagine della Lettera sull’«umanismo», Heidegger affronta la questione relativa al compito del pensiero, un compito che risiede nel portare a compimento «il riferimento (Bezug) dell’essere all’essenza dell’uomo» [1]. Questa tensione del “portare a compimento” non indica un produrre o un generare. Il pensiero non produce e non genera nulla. Il pensiero porta piuttosto a compimento: «Portare a compimento significa: dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, condurre-fuori a questa pienezza, producere» [2].

Dunque, seguendo questo significato, solo ciò che già è, può essere dispiegato e portato a compimento: «Ma ciò che prima di tutto “è” è l’essere» [3]. Il portare a compimento indica allora un far “av-venire”, un portare alla luce e al linguaggio ciò che già è, ciò che è da pensare. Il pensiero offre il riferimento (Bezug), porta a compimento la manifestatività dell’essere. Nel pensiero, scrive Heidegger, «l’essere perviene al linguaggio» [4], ossia a quel linguaggio che è la casa dell’essere nella cui dimora abita l’uomo e che ha nei pensatori e nei poeti i suoi autentici custodi. Essi, infatti, portano, più di ogni altro, a compimento la manifestatività dell’essere e, «mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono» [5]. Il pensiero, in quanto porta a compimento, agisce. E lo fa in maniera particolare, ossia rammemorando, ringraziando e custodendo.

«Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire» [6]: con questa frase ha inizio Lettera sull’«umanismo». Non pensare in maniera decisiva l’essenza dell’agire significa definire l’agire univocamente come il produrre un effetto, l’intervenire producendo. L’essenza dell’agire è per Heidegger, invece, il portare a compimento (vollbringen). Così, essendo l’essenza dell’agire un Vollbringen, il pensiero che porta a compimento agisce. Esso non si fa azione perché produce un effetto o una applicazione. Il pensiero, invece, «agisce in quanto pensa» [7]. Cosa vuole dire Heidegger con questa ultima affermazione? Quattro tesi elaborate nel corso di lezioni Was heißt Denken? possono rendere più chiara quella che immediatamente può apparire come una vuota sentenza: il pensiero agisce in quanto pensa. Esse sono:

1. Il pensiero non porta al sapere come vi portano le scienze.
2. Il pensiero non comporta una forma di saggezza utile alla vita.
3. Il pensiero non risolve gli enigmi del mondo.
4. Il pensiero non procura immediatamente forze per l’azione. [8]

Il pensiero non produce sapere, nella misura in cui non determina delle operazioni che mirano all’ente, al suo utilizzo e sfruttamento. Il pensare è sì un fare, ma un fare del tutto singolare. Esso è infatti «un fare che supera ogni prassi» [9], essendo il pensare «superiore all’agire e al produrre non per la grandezza delle sue prestazioni e neppure per gli effetti che causa, ma per quel poco (das Geringe) che è proprio del suo portare a compimento, privo di successi» [10]. Il pensiero agisce perché si preoccupa di compiere il riferimento dell’essere all’essenza dell’esserci, senza imporre determinazioni. Il pensiero «si lascia [così] reclamare dall’essere per dire la verità dell’essere. Il pensiero porta a compimento questo lasciare» [11]. Il pensiero, secondo quanto detto, si profila così essenzialmente come “pensiero dell’essere”. È soprattutto nella Lettera sull’«umanismo» che Heidegger descrive il rapporto tra pensiero ed essere in base al duplice significato che ha il genitivo nell’espressione “pensiero dell’essere”. Il pensiero, in primo luogo, è pensiero dell’essere in quanto fatto essere, avvenire (ereignet) dall’essere. Il pensiero in quanto è istituito dall’essere, appartiene all’essere: «Il pensiero è nello stesso tempo pensiero dell’essere in quanto, appartenendo all’essere, è all’ascolto dell’essere» [12]. Il pensiero che si lascia reclamare dall’essere, appartiene all’essere, e all’ascolto dell’essere si rivolge, gli presta orecchio (hört).

Il pensiero dell’essere non è per Heidegger un mero prodotto dell’uomo, «non si fonda su una capacità dell’uomo» [13]. Esso è un pensiero riferito all’essere e fiorito in esso. In questo senso il pensiero non appare appunto come la produzione di un soggetto cosciente, ma porta a compimento la manifestatività dell’essere. L’essere ci chiama nel pensiero perché ha bisogno del pensiero. E l’essere, in quanto è ciò che ci chiama al pensiero, reclama di essere servito e custodito per il tramite del pensiero. Questo pensiero dell’essere, che pensa ciò che è preoccupante, secondo Heidegger «non è un giudicare, né un dimostrare, né un fondare» [14], poiché «il pensare autentico non è un concepire, o un afferrare, azioni tipiche del pensiero rappresentativo, ma un lasciar essere custodente, un prendersi cura per lo svelarsi-occultarsi dell’essere» [15].

Al pensiero dell’essere si giunge grazie ad un salto, il salto nell’essere, un salto che si rivela come fondamento: «Fondamento ed essere [sono] lo Stesso […]. L’essere è nella sua essenza fondamento» [16]; ciò significa che il pensiero dell’essere non si interroga più sul perché dell’ente, cercandone la ragione sufficiente: questa infatti è la logica metafisica che riduce l’essere ad ente. L’essere è senza alcun fondamento, non ha alcun fondamento, poiché esso si configura come il semplice lasciarsi mostrare da parte degli enti. L’essere è pensato da Heidegger come Ab-grund, fondo abissale, «esso stesso privo di fondamento» [17]. L’interrogazione heideggeriana configura quindi una suggestiva coappartenenza di essere ed ente, senza però che tale relazione abbia il tratto del fondamento. Nel momento in cui si pensasse l’essere come fondamento (ossia l’essere come fondante rispetto all’ente da lui fondato e fatto essere), si dovrebbe supporre che l’essere, nell’essere fondamento dell’ente, abbia a sua volta un fondamento ulteriore che lo fondi. Ma se così fosse, l’essere verrebbe ridotto ad ente. L’essere è dunque grundlos; propriamente non fonda, ma dona rimanendo a sua volta senza fondamento:

Ogni fondazione, anzi, già ogni sembianza di fondabilità, non può che ridurre l’essere a qualcosa che è, cioè a un ente. L’essere, in quanto essere, resta senza-fondamento (grund-los). Il fondamento, vale a dire il fondamento inteso come quello che dovrebbe fondare l’essere, manca e resta via dall’essere. [18]

Pur presentandosi con il carattere del fondamento (grundhaft, grund-artig), tanto da far dire che «è essenzialmente (west) in sé in quanto fondante» [19], l’essere «non risulta né dello stesso tipo di fondazione da parte degli enti (un terreno su cui costruire, una tesi su cui basarsi…) né tanto meno dello stesso tipo del fondare razionale» [20]. L’essere è fondamento (Grund) in quanto fondo abissale (Ab-Grund) e non-fondamento (Ungrund). Esso può essere evocato solo nei termini di un gioco, «quel gioco, cioè, in cui l’essere in quanto essere riposa – è un gioco alto, se non addirittura il gioco sommo» [21]. L’essere che non ha un fondamento «gioca come il fondo abissale, l’abisso senza fondo di quel gioco che, in quanto destino, ci lancia (zuspielt) l’essere e il fondamento» [22]. Esso è il gioco che «non potrà mai essere riunito e confezionato in una definizione» [23]:

L’essere non ci offre nessun fondamento e nessun terreno, come fa l’ente a cui noi ci volgiamo, su cui noi costruiamo e a cui ci atteniamo. L’essere è la dis-dizione (Ab-sage) del ruolo di un tale fondare, diniega (versagt) tutto ciò che è fondativo (alles Grundige), è dis-fondativo (ab-grundig). [24]

Il salto nell’essere trasporta, conduce, «porta il pensiero, senza ponti, senza la continuità di un avanzamento progressivo, in un altro ambito e in un altro modo del dire» [25]. Il salto pensa l’essere in quanto essere e non pensa, come fa tutta la tradizione metafisica, l’essere a partire dall’ente. Solo questo salto consente dunque al pensiero di «arrivare a corrispondere all’essere in quanto essere, vale a dire alla verità dell’essere» [26]. L’essere è allora, nel linguaggio heideggeriano, la peculiare cosa (Sache) del pensiero umano. Il vocabolo “cosa” «significa la questione controversa, il contenzioso (das Strittige), quell’unico che, per il pensiero, è il caso che lo riguarda» [27]. La cosa del pensiero è ciò che riguarda prima di ogni altra cosa l’uomo, il suo pensiero. La cosa del pensiero è propriamente l’essere nel suo “lasciare essere”, ovvero, in definitiva, nel suo donare, progettare e richiamare. Si tratta di un richiamo radicale in cui l’uomo è strutturalmente coinvolto: egli è chiamato a portare a compimento il riferimento (Bezug) dell’essere. In questo, essenzialmente, consiste per Heidegger il compito autentico del pensare.
 

Note

[1] M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2008, p. 31.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Ivi, pp. 31-32.

[8] M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, trad. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1988, p. 264.

[9] M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit., p. 100.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

[13] M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., p. 110.

[14] M. Heidegger, Seminari, ed. it. a cura di M. Bonola, Adelphi, Milano 1992, p. 188.

[15] P. Palumbo, Cura della finitezza e inibizione della teoria nella filosofia del Novecento, Edizioni della fondazione nazionale «Vito Fazio-Allmayer», Palermo 2005, p. 101.

[16] M. Heidegger, Il principio di ragione, ed. it. a cura di F. Volpi, Fabbri Editori, Milano 2004, p. 188.

[17] Ivi, p. 189.

[18] Ibidem.

[19] Ivi, p. 91.

[20] P. Palumbo, Cura della finitezza e inibizione della teoria nella filosofia del Novecento, cit., p. 104.

[21] M. Heidegger, Il principio di ragione, cit., p. 190.

[22] Ivi, p. 193.

[23] Ivi, p. 161.

[24] M. Heidegger, Nietzsche, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 740.

[25] M. Heidegger, Il principio di ragione, cit., p. 97.

[26] Ivi, p. 190.

[27] M. Heidegger, Identità e differenza, ed. it. a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2013, p. 53.
 


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