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Osservare l’arte tra esperimenti e creazione. Possibilità e limiti di una sperimentazione estetica (5)

Osservare l’arte tra esperimenti e creazione. Possibilità e limiti di una sperimentazione estetica (5)

Ott 16

 
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D. L’arte come praxis, dynamis e kinesis

Se, da un lato, un’estetica psicoanalitica deve sapere decodificare il linguaggio dell’inconscio ritrovandone gli indizi, le variazioni e le strutture nelle più svariate manifestazioni artistiche, dall’altro si pone tutta un’altra riflessione quando a parlare e a sperimentare sono i gesti. Come è facile osservare, l’arte passa, spesso e volentieri, per un ampio linguaggio gestuale che dà adito ad una sperimentazione in termini di ritmo, movimento, volume. Se accompagnato dalla parola in musica – dal canto – il gesto artistico conferisce una certa armonia e, perfino, una tonalità al corpo in movimento. Quando si tratta di fare arte, infatti, la gestualità corporea è in grado di esprimere significati e di produrre immagini in misura ben maggiore rispetto a quanto sia in grado di fare il linguaggio verbale.

In questa sede, si distingueranno due diversi livelli di analisi basati sul contributo dato da autori provenienti da contesti storico-culturali altrettanto differenti: in primis, occorre segnalare la prossimità e l’importanza di due concetti come gesto e segno su di un piano empirico-trascendentale, a partire dalle opere di natura preminentemente estetica di Gilles Deleuze, opere dedicate alla letteratura (Marcel Proust e i segni o Kafka – Per una letteratura minore), al cinema (L’immagine-movimento e L’immagine-tempo) e al teatro (Un manifesto di meno). In particolare, Deleuze applica al romanzo di Proust una suddivisione gerarchica di segni e di mondi: il livello più elementare è quello dei segni e dei gesti consueti della vita di società, della mondanità, cui segue il livello delle parole e delle pratiche dell’amore e, successivamente, quello dei segni sensibili che indicano determinate qualità di un oggetto. Tutti questi mondi, dice Deleuze, sono caratterizzati da un irrinunciabile aspetto materiale, che inevitabilmente finisce per obliare qualsivoglia pretesa di “elevazione spirituale”: l’ultimo piano – quello dei segni dell’Arte – è segnato proprio dal superamento della componente materiale a favore di un senso totalmente spirituale e, quindi, essenziale. Volendo estendere il discorso deleuziano dalla Recherche alle più differenti esperienze artistiche, si può dire che il gesto artistico è l’unico in grado di conciliare la sua innegabile natura dinamica, corporea, materiale con un senso che è in grado di spiegare il movimento stesso, di giustificare la ripetizione di singoli gesti. Applicata al teatro e, specificatamente, al caso più unico che raro di Carmelo Bene, questa posizione così peculiare si confronta con il principio della variazione, della differenza intesa come affermazione, come ripetizione. Il gesto compiuto dall’attore sulla scena è tutt’altro che regolare, prevedibile o controllabile: la perenne variazione, che interessa il corpo proprio come abbiamo visto, in precedenza, interessare il linguaggio, è indice di musicalità sulla scena. Scrive Deleuze:

Nella variazione contano i rapporti di velocità e di lentezza e le modificazioni di tali rapporti, in quanto trascinano i gesti e gli enunciati, secondo coefficienti variabili, lungo una linea di trasformazione. La scrittura e i gesti di Bene sono musicali per questo: ogni forma è deformata da tali modificazioni di velocità che lo stesso gesto o la stessa parola non sono mai ripetuti due volte senza ottenere caratteristiche diverse di tempo. [12]

Con la sua gestualità, l’attore non mima, non imita nulla, non crea forme che si diano stabilmente nel tempo, ma continuamente le crea e le distrugge: anche quando un dato gesto e una data esclamazione sono ripetuti per una seconda volta, questi non presentano mai le medesime caratteristiche della loro prima occorrenza, perché v’è continua modificazione nella velocità, nella postura, nel volume, nel tono di voce. Un’infinita variazione che porta alla più completa spersonalizzazione: l’attore non è più padrone della propria voce o del proprio corpo, non agisce, non si muove, ma è agito, è mosso. Non bisogna creare capolavori, bisogna essere dei capolavori, esclama Carmelo Bene: il concetto di macchina attoriale e tutto il suo lavoro sulla phoné passano proprio attraverso questa variazione che de-preda, che sperimenta nuovi ritmi e nuove velocità, che esibisce l’attore sulla scena, il quale è estraneo al proprio corpo e alla propria voce, è in uno stato di abbandono. Il gesto, allora, si presenta come spasmo, come reazione involontaria e incontrollata di fronte ad un particolare fenomeno o evento. Come scrive Deleuze,

la subordinazione della forma alla velocità, alla variazione di velocità, la subordinazione del soggetto all’intensità o all’affetto, alla variazione intensiva degli affetti, ci sembrano essere due scopi essenziali da ottenere nelle arti. [13]

La seconda chiave di lettura per evidenziare i molteplici significati del gesto artistico è di carattere etico-genealogico: partendo dagli ultimi lavori di Michel Foucault, dedicati ad una plasmazione del proprio sé, basata sull’enkrateia e sulla cura, e passando attraverso il contributo offerto da Carlo Sini relativamente al valore pedagogico delle arti dinamiche, si arriva a prendere in considerazione il gesto come elemento formatore di umanità, di civiltà. L’opera di Yves Citton, Gestes d’humanités, si propone infatti di elaborare un’antropologia di tutte quelle esperienze estetiche, caratterizzate dalla presenza del gesto come elemento intercessore tra io e altro, come fattore regolativo dei rapporti intersoggettivi su cui si costruisce una comunità.

Alla luce di quanto scritto finora mi sembra più pertinente prendere in considerazione, in via conclusiva, l’esempio proposto da Carlo Sini: la danza e il canto del coro nel teatro greco del V secolo. Con la ripetizione di gesti, movimenti, parole (seguendo un preciso ritmo), si coinvolge, si invita qualcuno all’immedesimazione, si pone un valore [14]. In questo caso, il gesto artistico ha un duplice obiettivo: da un lato, risponde ad un’istanza formativa nei confronti della comunità, che, sulla base di una simile esperienza comune, fonda i principi cardine della propria cultura; dall’altro, mette in discussione la cultura stessa, perché ricerca un carattere pre-concettuale, pre-culturale dell’umano. L’arte non è che un percorso verso le proprie origini, verso la naturalità ormai dimenticata: Paul Cèzanne che dipinge, più e più volte, la montagna Sainte-Victoire è l’artista che vuole riportare, sotto gli occhi di tutti, un mondo estraneo al logos, il mondo da cui proveniamo e che, per certi versi, solo la mito-logia ha saputo raccontare.

Dunque, se gesti ordinari come il saluto o la stretta di mano rispondono ad una forma di umanità e di civiltà stabilite e rafforzatesi nel corso del tempo, i gesti inconsueti e straordinari dell’artista mettono in crisi l’ordine culturale, riportando alla mente l’originaria animalità dell’uomo, la sua natura imprevedibile e selvaggia. Essi offrono, con il proprio ritmo continuamente variato, un racconto delle origini e permettono allo spettatore di sperimentare forme estetiche, relazioni intersoggettive, affezioni ed emozioni che esulano dal normale decorrere delle convenzioni sociali.

Lo sguardo e i gesti dell’artista sfidano, provocano, sperimentano continuamente, al fine di mettere in discussione tutto ciò che, nel mondo, vi è di prestabilito e arbitrario, tutto ciò che può costituire il dominio del senso comune.
 

Note

[12] G. Deleuze, Un manifesto di meno, in Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata, 2002, pp. 104-105.

[13] Ibidem, p. 105.

[14] Il teatro, nella Grecia classica, era un’esperienza a 360 gradi, che contribuiva a dare un’identità al singolo cittadino e a rafforzare i legami tra membri della polis appartenenti ai più differenti ceti sociali. Basti pensare che era lo Stato in prima persona a sovvenzionare l’ingresso dei cittadini a teatro, pagando per quello che oggi chiameremmo “biglietto”.
 

Bibliografia parziale

CITTON Y., Gestes d’humanités. Anthropologie sauvage de nos expériences esthétiques, Armand Colin, Paris, 2012.

DELEUZE G., Marcel Proust e i segni, 1964, Einaudi, Torino, 2001.

DELEUZE G., BENE C., Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata 2002.

DIDEROT D., Arte, bello e interpretazione della natura, a cura di E. Franzini, Mimesis, Milano, 2013.

FOUCAULT M., Scritti letterari, Feltrinelli, Milano, 2010

FOUCAULT M., Sulla genealogia dell’etica, in La ricerca di M. Foucault, a cura di H. Dreyfus e P. Rabinow, Ponte alle Grazie, Firenze, 1989.

FRANZINI E., Introduzione all’estetica, Il Mulino, Bologna, 2012

HUSSERL E., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 2008.

MERLEAU-PONTY M., Il primato della percezione e le sue conseguenze filosofiche, Edizioni Medusa, Milano, 2004.

MERLEAU-PONTY M., Il visibile e l’invisibile, 1964, Bompiani, Milano, 1993.

RECALCATI M., Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Mondadori, Milano, 2007.

RECALCATI M., Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012

SINI C., Le arti dinamiche. Filosofia e pedagogia, CUEM, Milano, 2003.
 
Articolo iniziale: Osservare l’arte tra esperimenti e creazione. Possibilità e limiti di una sperimentazione estetica (1)
 


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