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Osservare l’arte tra esperimenti e creazione. Possibilità e limiti di una sperimentazione estetica (3)

Osservare l’arte tra esperimenti e creazione. Possibilità e limiti di una sperimentazione estetica (3)

Set 04

 
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B. Il legame indissolubile tra soggetto e oggetto: l’arte come methodos

Una strada che «corre attraverso». Per molto tempo, i filosofi hanno considerato l’arte come un percorso particolarmente fitto di ostacoli e interruzioni, come un modo di dar forma alla natura che, al variare dei tempi e delle culture, presenta sempre le medesime istanze e necessità. I primi studi di estetica – da Baumgarten a Winckelmann, da Lessing a Kant e Goethe – sono tutti volti, pur nella diversità del modo di procedere e delle conclusioni, a declinare alcuni concetti fondamentali relativi proprio all’esperienza artistica, intesa come una relazione tra un soggetto che osserva e interpreta e un oggetto naturale che viene contemplato e che si esibisce al suo sguardo.

L’uomo è soltanto il ministro o l’interprete della natura: non comprende e non fa se non nella misura di cui ha conoscenza, sperimentale o razionale, degli esseri che lo circondano. [7]

L’evocativa affermazione di Denis Diderot, che possiamo trovare nella voce Arte dell’Encyclopedie, rende perfettamente l’idea del ruolo del soggetto e del lavoro prettamente sperimentale che egli compie nel momento in cui si affaccia sul mondo naturale. La conoscenza che si ha degli oggetti del mondo non è mai univoca, stabile, certa, ma procede sempre per tentativi, ipotesi, esperimenti: si osserva un oggetto da più lati per coglierne le caratteristiche, ad una prima vista, nascoste.

V’è un elemento sperimentale sin dal primo sguardo di un osservatore, sia esso indirizzato ad un oggetto naturale, sia esso volto a contemplare la bellezza di un’opera d’arte. Questo semplicemente perché, quando si guarda, non ci si limita a constatare l’apparenza, l’involucro di un dato oggetto, ma si compie tutta una serie di piccole operazioni talmente spontanee da risultare quasi inconsapevoli: ad esempio, il soggetto ricerca connessioni con oggetti visti in precedenza e la cui forma è ben impressa nella memoria. Oppure, egli, posto di fronte ad un dipinto di straordinaria bellezza, cerca di ritrovarvi una prospettiva che rimandi al punto di vista originario del suo autore, il quale, a sua volta, mediante l’opera non ha fatto altro che esprimere (esibire, portar fuori, rendere manifeste) delle qualità che uno sguardo ingenuo non avrebbe mai potuto individuare in taluni oggetti.

L’obiettivo principale di ogni artista è quello di «imprimere certe determinate forme su una base data dalla natura», per questo motivo l’arte non è che «metodo di interpretazione qualitativa della natura». Dove risiede la vocazione sperimentale di un simile metodo? Nella prassi tipicamente artistica di «girare attorno» alle cose, per scoprirne lati sempre nuovi, per ritrovare qualcosa che sembrava perduto, dimenticato, ignorato. Come l’artista guarda da più angolazioni un oggetto naturale al fine di plasmarne forme sempre differenti che ne valorizzino determinate qualità, così l’osservatore contempla «sempre di nuovo» l’opera d’arte, perché ad ogni nuovo sguardo emergono caratteri e relazioni che precedentemente non sono stati colti.

Volendo porci all’interno dell’ampissimo quadro in cui si inserisce l’esperienza artistica in generale, potremmo ipotizzare che nel momento specifico della fruizione dell’opera si dia una relazione a tre poli: artista, opera, osservatore. Una relazione che si dipana attraverso quattro differenti fasi: in primo luogo, l’artista ricava la propria opera dando una forma ben precisa agli oggetti del mondo. Successivamente, l’opera stessa, fin dalla sua prima apparizione e nel suo stesso essere realizzata, sfida un ipotetico osservatore. Di conseguenza, la terza fase prevede che effettivamente vi sia un soggetto o un gruppo di soggetti che contempli le caratteristiche di tale opera. A questo punto, però, si ha una sorta di ribaltamento di fronte: l’osservatore risponde alla sfida lanciata dall’opera e dall’artista, dando una sua interpretazione, cui nella maggior parte dei casi l’artista non può rispondere.

Ma in che cosa consiste questa sfida? L’artista, costruendo un’opera, non fa altro che provocare e questa provocazione giunge all’attenzione di un osservatore. Egli dice: «Dietro queste linee e queste forme così elaborate si cela un segreto. Prova a indovinare quale sia stata la mia intenzione». In altri termini, l’osservatore deve cogliere quel che di “invisibile” si cela dietro l’apparenza immediatamente visibile dell’opera, proprio nel medesimo modo in cui l’artista ha colto il segreto invisibile dell’oggetto, ha decifrato il suo linguaggio geroglifico.

Chi più di tutti ha riflettuto sull’importanza della ricerca di un lato “invisibile” delle cose è stato Maurice Merleau-Ponty: a partire dalla sua opera cardine, La fenomenologia della percezione, passando attraverso saggi di vario contenuto come Senso e non senso, L’occhio e lo spirito, Il visibile e l’invisibile, Segni, egli ha sempre cercato di mettere in comunicazione la dimensione visibile, corporea, materiale e quella spirituale, immateriale, invisibile. Sottolineando quanto fondamentale sia, ai fini dell’husserliano progetto di un ritorno «alle cose stesse», la componente “carnale” dell’esperienza, Merleau-Ponty vede nell’arte un’esperienza a tutto tondo, che implica il lavoro costante e sempre attivo di un “corpo proprio”, di un Leib. In relazione alla percezione di lati non immediatamente visibili di oggetti, egli afferma:

Ciò che mi fornisce, insieme alle facce visibili dell’oggetto, le facce non visibili, questa sintesi che va dal dato a ciò che non è attualmente dato, non è una sintesi intellettuale che pone liberamente l’oggetto nella sua totalità, è piuttosto una sintesi pratica. [8]

Io posso toccare un oggetto, e lo posso fare seguendo più direzioni, da posizioni differenti. Ma questi lati non visibili, precisa Merleau-Ponty, non sono altro che il dispiegarsi di possibilità, che io considero a partire proprio da una prima percezione dell’oggetto. Egli sostiene il primato della percezione anche e soprattutto nell’esperienza artistica, dal momento che essa

ci restituisce un logos allo stato nascente, ci insegna, al di là di ogni dogmatismo, le vere condizioni dell’oggettività stessa, ci ricorda i compiti della conoscenza e dell’azione. [9]

Con la percezione e con la creazione dell’opera assistiamo alla nascita di un sapere, riacquistiamo coscienza dell’esistenza di un mondo che precede la categorizzazione operata dall’intelletto, ravvisiamo la presenza, irriducibile a misurazioni, di una dimensione precategoriale.

Ne deduciamo che, se di sperimentazione estetica si può effettivamente parlare, questa – almeno da una prospettiva fenomenologica – passa attraverso una prova ripetuta del corpo e dello sguardo a livello percettivo. La conoscenza, che passa attraverso l’esperienza sensibile, non può prescindere da un rapporto corporeo con le cose, che indaghi i lati nascosti di queste. L’artista sperimenta perché plasma forme sempre più rifinite ed elaborate in base a ripetute osservazioni di un dato oggetto: egli fa delle prove, ipotizza che dietro alla maschera vi sia un certo significato, giunge a precise conclusioni.

Tuttavia, quello indirizzato ad un oggetto o ad un’opera è solo il primo momento della visione: esso, infatti, lascia spazio ad un passo ulteriore, che consiste nel rivolgere lo sguardo verso il lato invisibile di sé, nel parlare con il linguaggio dell’inconscio.
 

Note

[7] D. Diderot, Arte, bello e interpretazione della natura, a cura di E. Franzini, Mimesis, Milano, 2013, p. 43.

[8] M. Merleau-Ponty, Il primato della percezione e le sue conseguenze filosofiche, Edizioni Medusa, Milano, 2004, p. 22.

[9] Ivi, p. 40.
 
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